Eluard | Gibran | Leopardi | Neruda | Blake | Yeats | Tagore | Baudelaire | Rimbaud | Sereni | Shakespeare | Petrarca | Angiolieri |
Catullo | Masters | Goethe | Dickinson | Apollinaire | Lorca | Pessoa | Hesse | Prevert | Evtusenko | Pasternak | Cardarelli | Carducci |
Giovanni Pascoli nacque a San Mauro di Romagna il 31 dicembre 1855. Da ragazzo fu nel collegio dei Padri Scolopi ad Urbino, quindi nei licei di Rimini e di Firenze. Nel 1867, il padre, mentre tornava a casa su un calessino trainato da una cavalla storna, rievocata in una poesia, fu ucciso. Non si seppe mai chi fosse l’assassino ed il delitto rimase perciò impunito. Poco dopo la morte del padre il Pascoli perse anche la madre e le due sorelle: e la famiglia, composta prevalentemente di ragazzi, cadde nella miseria e nel dolore. Il poeta poté giungere alla laurea, grazie ad una borsa di studio che gli permise di frequentare l’università di Bologna. Su questo fatto importante egli ha lasciato una commossa rievocazione nel racconto Ricordi di un vecchio scolaro.
Certamente le vicende
tristissime della sua famiglia, a cui egli assistette da fanciullo, e poi le
difficoltà economiche e gli ostacoli da superare, sempre solo, lasciarono un
solco profondo nel suo animo ed influirono sul suo carattere e conseguentemente
sulla sua poesia.
Da professore insegnò a Matera e quindi a Massa ed a Livorno, ma, avendo
assunto atteggiamenti anarchici, fu trasferito a Messina. Ma non fu un ribelle,
anzi, alla maniera decadente si chiuse nel suo dolore, si isolò in se stesso,
solo con le sue memorie e con i suoi morti. La sua ribellione fu un senso di
ripulsa e di avversione per una società in cui era possibile uccidere
impunemente e nella quale si permetteva che una famiglia di ragazzi vivesse
nella sofferenza e nella miseria.
Non c’è ribellione nella sua poesia, ma rassegnazione al male, una certa
passività di fronte ad esso: vi domina una malinconia diffusa nella quale il
poeta immerge tutto: uomini e cose. Egli accetta la realtà triste come è, e si
sottomette al mistero che non riesce a spiegare. La sua poesia non ha una trama
narrativa e non è neppure descrittiva: esprime soltanto degli stati d’animo,
delle meditazioni. E' l’ascolto della sua anima e delle voci misteriose che
gli giungono da lontano: dalla natura o dai morti.
LA VITA
1855 | Nasce, quarto figlio, da Ruggero e da Caterina Allocatelli Vincenzi. |
61–71 | Studia nel collegio dei padri scolopi a Urbino. |
1867 | Il padre viene assassinato mentre torna a casa in calesse. |
71–73 | Frequenta il liceo a Rimini. |
1873 |
Vince una borsa di studio – lo esamina Carducci – e si iscrive alla facoltà di lettere dell'Università di Bologna. |
76-77 |
Anni di miseria perché ha perso la borsa di studio; trascura gli studi, frequenta l'anarchico Andrea Costa, si impegna in riunioni e attività politiche. |
1879 |
Nel settembre viene arrestato per aver partecipato ad una dimostrazione di anarchici ma viene prosciolto in dicembre. |
1882 |
Si laurea e con l'interessamento di Carducci ottiene un posto al liceo di Matera. |
1884 |
È trasferito al liceo di Massa, dove qualche anno dopo chiama a vivere presso di sé le sorelle Ida e Maria. |
1891 |
Prima edizione di Myricæ . |
1892 |
Vince la prima medaglia d'oro al concorso di poesia latina ad Amsterdam. |
1895 |
Il matrimonio della sorella Ida lo sconvolge. Scrive alla sorella Maria da Roma, dove è "comandato" al Ministero della pubblica istruzione: "Questo è l'anno terribile, dell'anno terribile questo è il mese più terribile. Non sono sereno: sono disperato. Io amo disperatamente angosciosamente la mia famigliola che da tredici anni, virtualmente, mi sono fatta e che ora si disfà, per sempre. Io resto attaccato a voi, a voi due, a tutte e due: a volte sono preso da accesi furori d'ira, nel pensare che l'una freddamente se ne va strappandomi il cuore, se ne va lasciandomi mezzo morto in mezzo alla distruzione de' miei interessi, della mia gloria, del mio avvenire, di tutto!" |
97-03 |
Insegna letteratura latina all'Università di Messina, dove vive, ma ritorna spesso a Castelvecchio, presso Barga, dove ha affittato una casa di campagna che nel 1902 compra col ricavato dalla vendita di cinque medaglie d'oro conquistate al concorso di Amsterdam. |
1904 | Pubblica i Poemi conviviali e l'edizione definitiva dei Primi poemetti. |
1905 | Succede a Carducci nella cattedra di letteratura italiana a Bologna. |
1906 | Pubblica Odi ed Inni. |
1909 | Pubblica i Nuovi poemetti e le Canzoni di Re Enzio. |
1912 | Muore di cancro. |
IL PENSIERO DI PASCOLI
Pascoli ebbe una concezione
dolorosa della vita, sulla quale influirono due fatti principali: la tragedia
familiare e la crisi di fine ottocento.
La tragedia familiare colpì il poeta quando il 10 agosto del 1867 gli fu ucciso
il padre. Alla morte del padre seguirono quella della madre, della sorella
maggiore, Margherita, e dei fratelli Luigi e Giacomo. Questi lutti lasciarono
nel suo animo un'impressione profonda e gli ispirarono il mito del
"nido" familiare da ricostruire, del quale fanno parte i vivi e
idealmente i morti, legati ai vivi dai fili di una misteriosa presenza. In una
società sconvolta dalla violenza e in una condizione umana di dolore e di
angoscia esistenziale, la casa è il rifugio nel quale i dolori e le ansie si
placano.
L'altro elemento che influenzò il pensiero di Pascoli, fu la crisi che si verificò verso la fine dell'Ottocento e travolse i suoi miti più celebrati, a cominciare dalla scienza liberatrice e dal mito del progresso. Pascoli, nonostante fosse un seguace delle dottrine positivistiche, non solo riconobbe l'impotenza della scienza nella risoluzione dei problemi umani e sociali, ma l'accusò anche di aver reso più infelice l'uomo, distruggendogli la fede in Dio e nell'immortalità dell'anima, che erano stati per secoli il suo conforto:
...tu sei fallita, o scienza: ed è bene: ma sii maledetta che hai rischiato di far fallire l'altra. La felicità tu non l'hai data e non la potevi dare: ebbene, se non hai distrutta, hai attenuata oscurata amareggiata quella che ci dava la fede...
Pertanto, perduta la fede nella
forza liberatrice della scienza, Pascoli fa oggetto della sua mediazione proprio
ciò che il positivismo aveva rifiutato di indagare, il mondo che sta al di là
della realtà fenomenica, il mondo dell'ignoto e dell'infinito, il problema
dell'angoscia dell'uomo, del significato e del fine della vita.
Egli però conclude che tutto il mistero nell'universo è che gli uomini sono
creature fragili ed effimere, soggette al dolore e alla morte, vittime di un
destino oscuro ed imperscrutabile. Pertanto esorta gli uomini a bandire, nei
loro rapporti, l'egoismo, la violenza, la guerra, ad unirsi e ad amarsi come
fratelli nell'ambito della famiglia, della nazione e dell'umanità. Soltanto con
la solidarietà e la comprensione reciproca gli uomini possono vincere il male e
il destino di dolore che incombe su di essi.
La condizione umana è rappresentata simbolicamente dal Pascoli nella poesia I
due fanciulli, in cui si parla di due fratellini, che, dopo
essersi picchiati, messi a letto dalla madre, nel buio che li avvolge, simbolo
del mistero, dimenticano l'odio che li aveva divisi e aizzati l'uno contro
l'altro, e si abbracciano trovando l'uno nell'altro un senso di conforto e di
protezione, sicchè la madre, quando torna nella stanza, li vede dormire l'uno
accanto all'altro e rincalza il letto con un sorriso.
OPERE PIÙ SIGNIFICATIVE
Pascoli usa ancora forme
classiche come il sonetto, gli endecasillabi o le terzine, ma la sua poesia
costituì la prima reale rottura con la tradizione. Al di là della sua
apparente semplicità, è dalla poesia di Pascoli che genera buona parte della
poesia del Novecento. Le numerose pause che generano spezzature all'interno del
verso, oppure le frequenti rime sdrucciole che producono accelerazione; l'uso
insistito delle onomatopeee, la presenza di parole ricavate dalla lingua dei
contadini così come da quella dei colti, l'introduzione di temi fino ad allora
rifiutati dai poeti importanti, tutto concorre a produrre una poesia che è
rivoluzionaria nella sostanza e nelle intenzioni più che nella forma esteriore.
Il poeta è, per Pascoli, colui che è capace di ascoltare e dar voce alla
sensibilità infantile che ognuno continua a portare dentro di sé pur
diventando adulto. La poesia scopre nelle cose rapporti che non sono quelli
logici della razionalità e attribuisce ad ogni cosa il suo nome. Essa, senza
proporsi direttamente scopi umanitari e morali, porta ad abolire l'odio, a
sentirsi tutti fratelli e a contentarsi di poco, come avviene nei fanciulli.
... io vorrei trasfondere in voi, nel modo rapido che si conviene alla poesia, qualche sentimento e pensiero mio non cattivo. [...] Vorrei che pensaste con me che il mistero, nella vita, è grande, e che il meglio che ci sia da fare, è quello di stare stretti più che si possa agli altri, cui il medesimo mistero affanna e spaura. E vorrei invitarvi ala campagna.
(dalla Prefazione ai Primi poemetti, 1897)
Myricæ
(1891): è una raccolta di liriche di argomento semplice e modesto, come dice lo
stesso Pascoli, ispiratosi per lo più a temi familiari e campestri. Il titolo
è dato dal nome latino delle tamerici ("non omnes arbusta iuvant
humilesque Myricæ": non a tutti piacciono gli arbusti e le umili
tamerici), umili pianticelle che sono prese a simbolo di una poesia senza
pretese, legata alle piccole cose quotidiane e agli affetti più intimi.
Il titolo è allusivo ad una poesia dimessa, diversa da quella del Carducci e
anche da quella ardua e aristocratica di D’Annunzio. La prima edizione è del
1891. Insieme con i Canti di Castelvecchio sono opere
che la critica ha definito "del Pascoli migliore", poeta
dell’impressionismo e del frammento: "Son frulli di uccelli, stormire di
cipressi, lontano cantare di campane&", scrisse il poeta nella
Prefazione del 1894.
E' dunque una poesia fatta di piccole cose, inerenti per lo più alla vita della
campagna, di quadretti rapidissimi, conclusi nel giro di pochi versi
"impressionistici", dove le "cose" sono definite con
esattezza, col loro nome proprio (per esempio prunalbo per biancospino). Vi
compaiono anche poesie (Novembre, Arano) in cui le
"cose" si caricano di una responsabilità simbolica e già si affaccia
il tema dei morti (X Agosto),
sottolineando una visione della vita che tende a corrodere i confini del reale
–avvertito come paura e mistero- per una evasione nella fiaba e nel simbolo (Carrettiere,
Orfano, L'assiuolo).
Nella raccolta, cresciuta nel tempo dalle 22 poesie della prima edizione alle
155 dell'ultima, tolti pochi componimenti rimasti a sé, le poesie si ordinano
per temi, corrispondenti ai cicli annuali della vita in campagna. La raccolta si
apre con Il giorno dei morti,
il giorno in cui il poeta si reca al camposanto che "oggi ti vedo / tutto
sempiterni / e crisantemi. A ogni croce roggia / pende come abbracciata una
ghirlanda /donde gocciano lagrime di pioggia." In questa giornata
"Sazio ogni morto, di memorie, riposa." Non tutti però. "Non i
miei morti."
Temporale
Un bubbolìo lontano...
Rosseggia l'orizzonte,
come affocato, a mare:
nero di pece, a monte,
stracci di nubi chiare:
tra il nero un casolare:
un'ala di gabbiano.
Canti di Castelvecchio (1903): nella raccolta sono compresi e approfonditi i temi di Myricæ ma ha particolare incidenza il tema del nido familiare e delle memorie autobiografiche e compaiono parecchi componimenti di impianto narrativo; finito il vagabondaggio per la campagna di Myricæ se ne inizia uno nuovo: ma ora è un viaggio attorno al suo giardino, entro i cancelli e entro il suo orto.
Il senso del mistero, connesso al dolore della vita e all’angoscia della morte, si traduce ora in una sorta di allucinazioni, nel ricordo dei morti ("Mi son seduto in una panchetta / come una volta.../ quanti anni fa? / Ella, come una volta s’è stretta sulla panchetta", La tessitrice), ora nell’auscultazione di richiami impercettibili ("... mi chiamano le canapine / coi lunghi lor gemiti uguali", Le rane), ora nello sconfinamento dei ricordi -suggeriti ad esempio dal suono delle campane- ai limiti del preconscio: "Mi sembrano canti di culla / che fanno ch’io tori com’era / Sentivo mia madre... poi nulla... / sul far della sera" (La mia sera). Sono trasalimenti dell’animo e simboli che però lievitano frequentemente da notazioni realistiche, espresse attraverso un discorso addirittura narrativo: "E s’aprono i fiori notturni, nell’ora che penso ai miei cari / Sono apparse in mezzo ai viburni / le farfalle crepuscolari" (Il gelsomino notturno). Si può dire che nei Canti sta il punto del massimo compenetrarsi tra i due aspetti della poesia pascoliana: il simbolo e la realtà.
La mia sera
Il giorno fu pieno di lampi;
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle. Nei campi
c'è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei pioppi
trascorre una gioia leggera.
Nel giorno, che lampi! che scoppi!
Che pace, la sera!Si devono aprire le stelle
nel cielo sì tenero e vivo.
Là, presso le allegre ranelle,
singhiozza monotono un rivo.
Di tutto quel cupo tumulto,
di tutta quell'aspra bufera,
non resta che un dolce singulto
nell'umida sera.È, quella infinita tempesta,
finita in un rivo canoro.
Dei fulmini fragili restano
cirri di porpora e d'oro.
O stanco dolore, riposa!
La nube del giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
nell'ultima sera.Che voli di rondini intorno!
che gridi nell'aria serena!
La fame del povero giorno
prolunga la garrula cena.
La parte, sì piccola, i nidi
nel giorno non l'ebbero intera.
Né io... e che voli, che gridi,
mia limpida sera!Don... Don... E mi dicono, Dormi!
mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi!
là, voci di tenebra azzurra...
Mi sembrano canti di culla,
che fanno ch'io torni com'era...
sentivo mia madre... poi nulla...
sul far della sera.
Poemetti
(pubblicati nel 1897 e poi sdoppiati in Primi
poemetti, 1904 e Nuovi poemetti,
1909): costituiscono una vera e propria epica rurale sul modello delle Georgiche
virgiliane: cantano, in terzine dantesche, l’amore di Rosa per il cacciatore
Rigo, la vita contadina, il lavoro dei campi (La sementa, La piada,
L’accestire).
Italy affronta il tema dell’emigrazione (anch’esso
riflesso di quello del nido) dove il contrasto campagna-città, infanzia-maturità,
spogliato delle sue connotazioni autobiografiche, si oggettiva nel contrasto tra
la vita patriarcale che si svolge nella campagna nativa e quella febbrile della
metropoli americana, tutta tesa ai "bisini" ("business" gli
affari) e al successo. Il contrasto si risolve sul piano linguistico in un
audace sperimentalismo.
A queste composizioni si intrecciano altre percorse da un simbolismo insistito,
e talvolta esplicito (Il libro); si accampa quella che è stata
definita "una poesia astrale", aperta a "voragini misteriose di
spazio, di buio e di fuoco" (La
vertigine).
Il libro
Sopra il leggìo di quercia è nell'altana,
aperto, il libro. Quella quercia ancora
esercitata dalla tramontana
viveva nella sua selva sonora;
e quel libro era antico. Eccolo: aperto,
sembra che ascolti il tarlo che lavora.
E sembra ch'uno (donde mai? non, certo,
dal tremulo uscio, cui tentenna il vento
delle montagne e il vento del deserto,
sorti d'un tratto...) sia venuto, e lento
sfogli – se n'ode il crepitar leggiero –
le carte. E l'uomo non vedo io: lo sento,
invisibile, là, come il pensiero...
Poemi conviviali (1904): il loro titolo è tratto dalla rivista "Convivio" di Alfredo De Bosis, ma allude anche ai canti degli aedi ai conviti (Triste il convito senza canto). In endecasillabi sciolti, richiamano miti e figure del mondo classico, greco e romano (il mito dell’Ellade percorre come un filo rosso tutto l’Ottocento, da Foscolo a Leopardi, a Carducci, a D’Annunzio): ma la sensibilità decadente di Pascoli stravolge questi miti, fino a farne simboli della infelicità e del mistero, annullando -secondo un procedimento tipico che sottintende la fuga dalla realtà– i confini della storia, per assorbirla in una visione esistenziale: così Alessandro Magno, arrivato ai confini della terra, piange, perché non può più "guardare oltre, sognare" (Piange dall’occhio nero come morte / piange dall’occhio azzurro come il cielo, Alèxandros); così l’etera non è più la creatura splendente di bellezza e di vita della tradizione classica, ma è la donna affannata che, nell’Erebo, è circondata dalle larve dei figli non nati; e "l’odissea" di Ulisse conduce l’eroe non verso le fascinose plaghe del mito (Polifemo e le sirene sono illusorie costruzioni della fantasia), ma verso l’orrenda morte. Odi e Inni: contengono componimenti scritti a partire dal 1903. Pascoli qui assume il ruolo di poeta–vate e celebra gli eroi nazionali, le realizzazioni del lavoro e della tecnica, le grandi esplorazioni; Carmina: è la raccolta delle poesie latine di Pascoli pubblicate dalla sorella Maria; Il fanciullino; La grande proletaria.
LA POETICA
La poetica di Pascoli è espressa nella celebre prosa, Il fanciullino. Questi ne sono i punti essenziali:
ELEMENTI DELLO STILE
Il linguaggio: Pascoli usa un linguaggio poetico lirico, con echi e risonanze melodiche ottenute talvolta con ripetizioni di parole e di espressioni cantilenanti, arricchite di rapide note impressionistiche e di frasi spesso ridotte all’essenziale. In questo egli prelude ai poeti del novecento.
Il lessico: è nuovo, con mescolanze di parole dotte e comuni ma sempre preciso e scrupolosamente scientifico quando nomina uccelli (cince, pettirossi, fringuelli, assiuoli...) o piante (viburni o biancospini, timo, gelsomini, tamerici...).
Realtà e simbolismo: egli ricerca " nelle cose il loro sorriso", la loro anima, il loro significato nascosto e simbolico. Ecco perché la sua poesia è sempre ricca di allusioni e di analogie simboliche.
La sintassi: preferisce periodi semplici, composti di una sola frase, o strutture paratattiche con frasi accostate mediante virgole o congiunzioni.
Aspetto metrico e fonico: partendo dalla metrica classica e tradizionale vi innesta forme e metri nuovi, adatti ad esprimere timbri e toni nascosti, assonanze e allusioni. Cura in particolare la magia dei suoni, la trama sonora, gli effetti musicali di onomatopee espressive e di pause improvvise.
Accorgimenti stilistici: molto curate le scelte espressive. Per rendere le immagini più vive e sintetiche, Pascoli ama talvolta eliminare congiunzioni e verbi (ellissi) o fare accostamenti nuovi trasformando aggettivi e verbi in sostantivi (un nero di nubi... il cullare del mare...). Ne risulta uno stile impressionistico e nuovo.
Pascoli
«Il poeta è
poeta, non oratore o predicatore, non filosofo, non istorico, non maestro, non
tribuno o demagogo, non uomo di stato o di corte. E nemmeno è, sia con pace del
maestro, un artiere che foggi spada e scudi e vomeri; e nemmeno, con pace di
tanti altri, un artista che nielli e ceselli l'oro che altri gli porga. A
costituire il poeta vale infinitamente più il suo sentimento e la sua visione,
che il modo col quale agli altri trasmette l' uno e l' altra. Egli, anzi, quando
li trasmette, pur essendo in cospetto d'un pubblico, parla piuttosto tra sé,
che a quello. Del pubblico, non pare che si accorga. Parla forte (ma non tanto!)
più per udir meglio esso, che per farsi intendere da altrui. É, per usare
immagini che sono presenti ora al mio spirito, è, sì, per quanto possa
spiacere il dirlo, un ortolano; un ortolano, sì, o un giardiniere, che fa
nascere e crescere fiori o cavolfiori. Sapete che cosa non è? Non è cuoco e
non è fiorista, che i cavolfiori serva in bei piatti, con buoni intingoli, che
i fiori intrecci in mazzetti o in ghirlandette. Egli non sa se non levare al
cavolo qualche foglia marcia o bacata, e legare i fiori alla meglio, con un
torchietto che strappa lì per lì a un salcio: come a dire, unisce i suoi
pensieri con quel ritmo nativo, che è nell'anima del bimbo che poppa e del
monello che ruzza.
Ora il poeta sarà invece un autore di provvidenze civili e sociali? Senza
accorgersene, se mai. Si trova esso tra la folla; e vede passar le bandiere e
sonar le trombe. Getta la sua parola, la quale tutti gli altri, appena esso l'ha
pronunziata, sentono che è quella che avrebbero pronunziata loro. Si trova
ancora tra la folla: vede buttare in istrada le masserizie di una famiglia
povera. Ed esso dice la parola, che si trova subito piena delle lagrime di
tutti.
Il poeta è colui che esprime la parola che tutti avevano sulle labbra e che
nessuno avrebbe detta. Ma non è lui che sale su una sedia o su un tavolo, ad
arringare. Egli non trascina, ma é trascinato; non persuade, ma è persuaso.»
[…]
«Bene! Dunque riassumo, come uomo serio che sono. La poesia, per ciò stesso
che è poesia, senz'essere poesia morale, civile, patriottica, sociale, giova
alla moralità, alla civiltà, alla patria, alla società. Il poeta non deve
avere, non ha, altro fine (non dico di ricchezza, non di gloriola o di gloria)
che quello di riconfondersi nella natura, donde uscì, lasciando in essa un
accento, un raggio, un palpito nuovo, eterno, suo. I poeti hanno abbellito agli
occhi, alla memoria, al pensiero degli uomini, la terra, il mare, il cielo, l'
amore, il dolore, la virtù; e gli uomini non sanno il loro nome. Ché i nomi
che essi dicono e vantano, sono, sempre o quasi sempre, d'epigoni, d'ingegnosi
ripetitori, di ripulitori eleganti, quando non siano nomi senza soggetto. Quando
fioriva la vera poesia; quella, voglio dire, che si trova, non si fa, si scopre,
non s'inventa; si badava alla poesia e non si guardava al poeta; se era vecchio
o giovane, bello o brutto, calvo o capelluto, grasso o magro: dove nato, come
cresciuto, quando morto. Siffatte quisquilie intorno alla vita del poeta si
cominciarono a narrare a studiare a indagare, quando il poeta stesso volle
richiamare sopra sé l'attenzione e l'ammirazione che è dovuta soltanto alla
poesia. E fu male. E il male ingrossa sempre più. I poeti dei nostri tempi
sembrano cercare, invece delle gemme che ho detto, e trovare, quella vanità che
è la loro persona. Non codesta quei primi. E tu, o fanciullo, vorresti fare
quello che fecero quei primi, col compenso che quei primi n'ebbero; compenso che
tu reputi grande, perché sebbene non nominati, i veri poeti vivono nelle cose
le quali, per noi, fecero essi.
É così?
……………………………………………………………………………………………………………..
Sì.»