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Evgenij A. Evtusenko
Nasce a Zimà in Russia, nei pressi di una stazione della Transiberiana, il 18 Luglio 1933. I suoi genitori sono due studenti di geologia dell'Università di Mosca che si erano recati in quel paesino sperduto in Siberia per trovare i parenti esiliati a causa di un antenato contadino che, il secolo precedente, aveva bruciato la casa del suo padrone.
Ma è a Mosca che vive la maggior parte della sua infanzia e nel '41 resta solo con la madre, visto che il padre li abbandona per andare a lavorare nel Kazachstan. Alla fine della guerra, anche la mamma lo abbandona per trasferirsi al fronte dove canta per i soldati.
Il ragazzo resta senza nessuna guida e trascura gli studi, anche se comincia a scrivere i primi versi. In quell'epoca il suo amore è diviso tra la poesia e il calcio. Ma l'avventura d'atleta non dura molto, anche se grazie ad un giornale sportivo che viene notato come poeta nel 1949.
Per il suo temperamento ardente e l'odio sincero contro chi opprime la libertà dell'uomo, Evtusenko rischia di essere emarginato dai potenti della Russia, ma grazie anche ad alcuni suoi interventi a favore del partito viene riabilitato e, adirittura, eletto segretario di una sezione locale della Gioventù Comunista.
Negli anni '70 diventa l'ambasciatore culturale della Russia moderna, viaggiando molto in vari paesi d'Europa, America ed Asia.
La sua poesia si basa soprattutto su componimenti di impegno civile e su liriche dedicate all'amore. Le contraddizioni, i contorsionismi e i compromessi non giovano al poeta, anche se va riconosciuto il suo talento e la sua originalità
VORREI......
Vorrei nascere in tutti i paesi,
perché la terra stessa, come anguria,
compartisse per me il suo segreto,
e essere tutti i pesci in tutti gli oceani
e tutti i cani nelle strade del mondo.
Non voglio inchinarmi davanti a nessun dio,
la parte non voglio recitare di un hippy ortodosso,
ma vorrei tuffarmi in profondità nel Bajkal
e sbuffando riemergere nel Mississippi.
Vorrei
nel mio mondo adorato e maledetto
essere un misero cardo non un curato giacinto,
essere una qualsiasi creatura di dio
sia pure l’ultima iena rognosa,
ma in nessun caso tiranno
e di un tiranno, nemmeno il gatto in nessun caso.
Vorrei essere uomo,
in qualsiasi personificazione:
anche torturato in un carcere del Guatemala
o randagio nei tuguri di HongKong,
o scheletro vivente nel Bangladesh
o misero jurodivij a Lhasa,
o negro a Capetown ma non personificazione della feccia.
Vorrei giacere sotto il bisturi di tutti i chirurghi del mondo,
essere gobbo, cieco, provare ogni malattia, ferita, deformità,
essere mutilato dalla guerra, raccogliere luride cicche
purché non s’insinui il microbo ignobile della superiorità.
Non vorrei far parte dell’elite,
ma di certo neppure del gregge dei vigliacchi,
ne dei cani del gregge, ne dei pastori che al gregge si conformano,
vorrei essere felicità, ma non a spese degli infelici,
vorrei essere libertà, ma non a spese di chi è asservito.
Vorrei amare tutte le donne del mondo
e vorrei essere donna anch’io – magari una volta soltanto…..
Madre natura, l’uomo è stato da te defraudato.
Perché non dargli la maternità?
Se in lui, sotto il cuore, un figlio si facesse sentire così, senza un perché,
certo l’uomo non sarebbe tanto crudele.
Vorrei essere essenziale – magari una tazza di riso
nelle mani di una vietnamita segnata dal pianto,
o una cipolla nella brodaglia di un carcere di Haiti,
o un vino economico in una trattoria di terz’ordine napoletana
e un tubetto, anche minuscolo, di formaggio
che mi mangino pure e mi bevano
purché nella mia morte ci sia un’utilità.
Vorrei appartenere a tutte le epoche,
far trasecolare la storia tanto da stordirla con la mia impudenza:
della gabbia di Pugacev segherei le sbarre, quale Gavroche
introdottosi in Russia,
condurrei Nefertiti a Michajlovskoe, sulla troika di Puscin.
Vorrei cento volte prolungare la durata di un attimo:
per potere nello stesso istante bere alcool con i pescatori della Lena,
baciare a Beirut, danzare in Guinea, al suono del tam-tam,
scioperare alla Renault,
correre dietro a un pallone con i ragazzi Copacabana
vorrei essere omnilingue, come le acque segrete del sottosuolo.
Fare di colpo tutte le professioni e ottenere così
che un Evtusenko sia semplicemente poeta,
un altro, un militante clandestino spagnolo, un terzo, uno studente di Berkeley
e un quarto, un cesellatore di Tbilisi.
Un quinto – un maestro elementare in Alaska,
un sesto – un giovane presidente in qualche dove, anche in Sierra Leone, diciamo,
un settimo – scuoterebbe soltanto il sonaglio di una carrozza,
e il decimo…il centesimo….il milionesimo…...
Poco per me essere me stesso – tutti, fatemi essere!
E per ciascun essere, in coppia, come si usa.
Ma dio, lesinando la carta carbone, mi ha prodotto in un solo esemplare
nel suo bogizdat.
Avrò mille facce fino all’ultimo giorno,
affinchè la terra rimbombi per causa mia e i computers impazziscano
per il mio universale censimento.
Vorrei, umanità, lottare su tutte le barricate,
stringermi ai Pirenei,
coprirmi di sabbia attraverso il Sahara
e accettare la fede della grande fratellanza umana
e fare proprio il volto di tutta l’umanità.
E quando morirò – sensazionale Villon siberiano –
non deponetemi in terra inglese o italiana
ma nella nostra terra russa,
su quella verde, serena collina,
dove per la prima volta
io mi sono sentito tutti.
Sono Gagarin il figlio della terra