I GRANDI CLASSICI DELLA POESIA

 

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Cecco Angiolieri

 

Cecco Angiolieri nasce a Siena attorno al 1260, da una ricca famiglia di banchieri; si hanno poche notizie sulla sua vita, che comunque fu piuttosto movimentata e violenta. 

Sua madre fu monna Lisa de' Salimbeni, appartenente dunque a una delle più nobili, cospicue e potenti famiglie del Comune; suo padre Angioliero, a sua volta figlio di quell'Angioliero detto Solàfica (cioè Serafica) che fu per alcuni anni banchiere di Gregorio IX, era fra le personalità più in vista della vita politica ed economica di Siena. Entrambi entrarono nell'ordine dei Cavalieri di Santa Maria (indicati poi col satirico nome di Frati Gaudenti), del quale potevano far parte anche i coniugati.

In un ambiente così fatto Cecco crebbe e si formò secondo i modi d'allora e volto a impossessarsi della cultura vigente (in particolar modo le arti del trivio e del quadrivio), come rivela e documenta la sua produzione poetica. Milita come alleato dei Fiorentini contro Arezzo nel 1288, e qui probabilmente conosce Dante, che sfida a una tenzone di sonetti. Nel 1281 era fra i senesi che militavano contro i ghibellini asserragliati nel castello di Turri di Maremma, e fu più di una volta multato per essersi allontanato dal campo senza la dovuta licenza. Lo troviamo ancora colpita da multe in città l'anno successivo (1282), ed esattamente l'11 luglio, per essere stato trovato ancora in giro di notte dopo il terzo suono della campana del Comune. Altra multa gli fu comminata nel 1291 in circostanze analoghe.

Sono questi gli anni ai quali risale pressoché per intero la sua produzione poetica, almeno quella che ci è pervenuta. Dovrebbe esser questo anche il periodo in cui un oscuro rimatore, un certo Simone, si volge a lui come a maestro (son. 112) e in cui fiorisce l'amicizia (che poi doveva dimostrarsi assurda) con Dante Alighieri. Non è improbabile che i due si fossero conosciuti anche di persona in occasione della guerra contro Arezzo, anzi documento probante ne potrebbe essere il son. 109 (Lassar vo' lo trovare di Becchina), inviato da Cecco a Dante fra il 1289 e il 1294, nel quale si parla d'un vanesio e vile " mariscalco " certamente noto a entrambi e di entrambi oggetto di riso (Amerigo di Narbona, anch'egli fra i combattenti della guerra d'Arezzo). Anteriore al 1293-1294 sarà anche da tenere il secondo episodio di questa amicizia (son. 110), riguardante certe troppo sottili e compiaciute accuse di incoerenza rivolte da Cecco al sonetto dantesco Oltre la spera prima che questo fosse incluso nell'ordito della Vita Nuova (al cap. XLI); mentre il terzo episodio, che denuncia inequivocabilmente la violenta frattura fra i due e che è documentato dal son. 111 (Dante Alighier, s'i' so' bon begolardo) nella sua tessitura prorompente di sarcastiche contumelie, va fissato al 1303-1304, come risulta dal v. 8: "S'eo so' fatto romano, e tu lombardo ". Si allude certo qui al primo esilio di Dante a Verona presso Bartolomeo della Scala ("e tu lombardo"); ma se ne ricava analoga notizia per Cecco, che doveva essere esule a Roma (o s'eo so' fatto romano), dov'egli secondo una notizia di Celso Cittadini, per altro poco attendibile, sarebbe dimorato in casa del cardinale senese Riccardo Petroni. Purtroppo non ci sono giunti i tre sonetti che Dante verosimilmente avrà scritti in tenzone con quelli ora ricordati dell'Angiolieri. Anche un'altra volta Cecco fu lontano da Siena, e probabilmente per ragioni politiche, dacché egli, per indicare il desiderio di ritornarvi, usa la parola " ribandito ", termine tecnico per significare il richiamo in città di chi ne era stato bandito: ",s'i' veggia '1 dì sia 'n Siena ribandito" (son. 32, 2); ma nulla di più se ne sa. Intanto nel 1302 l'Angiolieri vendeva a un tal Neri Perini del popolo di Sant'Andrea una sua vigna per settecento lire; ed è questo l'ultimo documento d'archivio nel quale Cecco è nominato ancor vivo, perché nel successivo documento che lo riguarda e che è del 25 febbraio del 1313, egli compare come già morto. In esso i numerosi figli di lui, che dunque si era sposato e aveva messo su famiglia, Meo, Deo, Angioliero, Arbolina e Sinione (un'altra figlia, Tessa, era già emancipata), rifiutano l'eredità paterna perché eccessivamente gravata di debiti. Se ne deduce che l'Agiolieri doveva esser morto poco innanzi.

Uomo frivolo e spensierato, disordinato e dissipatore, ebbe come ideale di vita tre cose solamente, la donna, la taverna e il dado (sono parole dello stesso Angiolieri); tuttavia ci ha lasciato un ricco canzoniere, dal quale risalta moltissimo anche il suo romanticismo di vita nell'amore per una Becchina, figlia di un cuoiaio. Nelle sue rime frequente è il motivo dell'odio verso i suoi genitori, velato da un profondo senso di malinconia. Cecco è sicuramente il più noto, e forse anche il più efficace, felice e fortunato rappresentante fra il Due e Trecento di quel genere di poesia, alla quale, con accezione rigorosamente scientifica, dovrebbe essere attribuita la denominazione di giocosa, o più comprensivamente di comico-giocosa, conforme alla mentalità retorica dell'ultimo Medioevo e all'insegnamento delle Poetrie. Una poesia cioè d'argomento e di linguaggio realisticamente quotidiano e dialettale (" comico ") in toni scherzosi e burleschi (" giocoso "; di sernio iocosus, di materia iocosa discettavano i trattati di retorica). Siffatta poesia, pur nei suoi modi e aspetti municipalistici. non è soltanto comunale e toscana, ma, configurata tecnicamente com'essa era e cristallizzata scolasticamente, ricopre tutto il territorio delle letterature romanze, dal francese Rustebeuf allo spagnolo Bernardo Ruiz, dai Carmina buralla a tanti aspetti dei Fabliaux, delle Fratasies, delle Cantigas d'escarnho et de maldizer, ecc. fìno a certe punte addirittura della poesia provenzale. Essa rappresenta il fastidio e la sazietà dei modi aulici assai poveri del senso e del gusto della realtà; si richiama alla vivace varietà della vita in contrapposizione.

Più che autentica poesia, la critica moderna scorge nell'Angiolieri arte, genialità, brio, sbrigliata caricatura..



SONETTI


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I



La mia malinconia è tanta e tale, 

ch'i' non discredo che, s'egli 'l sapesse 

un che mi fosse nemico mortale, 

che di me di pieta [de] non piangesse. 

Quella, per cu' m'aven, poco ne cale: 

ché mmi potrebbe, sed ella volesse, 

guarir 'n un punto di tutto 'l mie male,

sed ella pur " I' t'odio " mi dicesse. 

Ma quest' è la risposta c'ho da llei: 

ched ella no mmi vòl né mal né bene, 

e ched i' vad' a ffar li fatti mei, 

ch'ella non cura s'i' ho gioi' e pene, 

men ch'una paglia che lle va tra' piei. 

Mal grado n'abbi' Amor, ch'a lle' mi diène.




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II



S'e' si potesse morir di dolore, 

molti son vivi che sserebber morti; 

i' son l'un desso, sed e' no me 'n porti 

'n aním' e carn' il Lucifer maggiore: 

avegna ch'i' ne vo co la peggiore, 

ché ne lo 'nferno non son cosi forti 

le pene e [li] tormenti e li sconforti 

com' un de' miei, qualunque è l[o] minore. 

Ond' io esser non nato ben vorria, 

od esser cosa che nnon si sentisse, 

poi ch'ì' non trovo 'n me modo né via: 

se non è 'n tanto che sse si compisse 

per aventura omai la profezia, 

che ll'uom vuol dir, ch'Anticrísto venisse.




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III



" Becchin' amor! " " Che vuo', falso tradito? "

" Che mmi perdoni ". " [Tu] non ne se' degno ". 

" Merzé, per Deo! " " Tu vien' molto gecchito ".

" E verrò sempre ". " Che saràmi pegno? " 

" La buona fé ". " Tu nne se' mal fornito ". 

" No inver' di te ". " Non calmar, ch'i' ne vegno ".

" In che fallai? " " Tu ssa' ch'i' l'abbo udito ".

" Dimmel', amor ". " Va', che tti veng' un segno! "

" Vuol pur ch'i' muoia? " " Anzi mi par mìll' anni ".

" Tu non di' bene ". " Tu m'insegnerai ".

" Ed i' morrò ". " Omè, che ttu m'inganni! "

" Die te'l perdoni ". " E cché. non te ne vai? "

" Or potess'io! " " Tegnoti per li panni? "

" Tu tieni 'l cuore ". " E terrò co' tuo' guai ".






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IV



Qualunque giorno non veggio 'l mi' amore,

la notte come serpe mi travolto,

e sì mmi giro, che paio un bigollo,

tanta è la pena che sente 'l meo core.

Parmi la notte ben cento mili' ore,

dicendo: " Dio, sarà mma' dì, vedròllo? ";

e tanto piango, che tutto m'immollo,

ch' alcuna cosa m'aleggia 'l dolore.

Ed i' ne son da llei cosi cangiato:

ché 'nn-una [che]d e' giungo 'n sua contrada, 

sì mmi fa dir ch'i' vi son troppo stato,

e ched i' voli, si ttosto me'n vada,

però ch'ell' ha 'l sul amor a ttal donato, 

che per un mille più di me li aggrada.




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V



S'i' fosse fuoco, arderei 'l mondo; 

s'i' fosse vento, lo tempestarei;

s'i' fosse acqua, i' l'annegherei;

s'i' fosse Dío, mandereil' en profondo; 

s'i' fosse papa, allor serei giocondo, 

ché tutti cristiani imbrigarei;

s'i' fosse 'mperator, ben lo farei:

a tutti tagliarei lo capo a tondo.

S'i' fosse morte, andarei a mi' padre; 

s'i' fosse vita, non starei con lui: 

similemente faria da mi' madre.

S'i' fosse Cecco, com' i' sono e fui, torrei le donne giovani e leggiadre:

le zop[p]e e vecchie lasserei altrui.




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VI





Tre cose solamente m'ènno in grado,

le quali posso non ben ben fornire, 

cioè la donna, la taverna e 'l dado: 

queste mi fanno 'l cuor lieto sentire. 

Ma sì mme le convene usar di rado,

ché la mie borsa mi mett' al mentire; 

e quando mi sovien, tutto mi sbrado, 

ch'i' perdo per moneta 'l mie disíre. 

E dico: " Dato li sia d'una lancia! ", 

ciò a mi' padre, che mmi tien sì magro, 

che tornare' senza logro di Francia. 

Ché fora a torli un dinar[o] più agro, 

la man di Pasqua che ssi dà la mancia, 

che far pigliar la gru ad un bozzagro.




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VII



No si disperin que[lli] de lo 'nferno', 

po' che n'è uscito un che vlera chiavato, 

el quale è Cec[c]o, chlè cosi chiamato, 

che vi credea stare in se[m]piterno. 

Ma in tal[e] guisa è rivolto il quaderno, 

che sempre viverò grolificato, 

po' che messer Angiolieri è scoiato, 

che m'afrig[g]ea d'estate e di verno. 

Muovi, nuovo sonetto, e van[n]e a Cec[c]o, 

a quel che giù dimora a la Badia: 

digli che Fortar[rligo è mezzo sec[c]o; 

che no si dia nul[l]la mani[n]conia, 

ma di tal cibo imbe[c]chi lo suo bec[c]o, 

ch'e' viverà più ch'Enòch e[d] Elia.






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VIII



Lassar vo' lo trovare de Becchina 

Dant[e] Alig[hi]eri, e dir del Mariscalco: 

ch'e' par fìorin d'or, ed è d'oricalco; 

par zuc[c]ar cafetin, ed è salina; 

par pan di grano, ed è [pan] di saggina; 

par una tor[r]e, ed è un[o] vil balco; 

ed è un nibbio, e par un[o] girfalco; 

e pare un gal[l]o, ed è una gal[l]ina. 

Sonet[t]o mio, vat[t]ene a Fiorenza, 

dove vedrai le don[n]e e le donzelle: 

di' che 'l so fat[to] è solo di parvenza. 

Ed eo per me ne conterò novelle 

al bon re Carlo conte de Provenza, 

e per 'sto modo i fregiar6 la pel[l]e.




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IX



Dante Allaghier, Cecco, tu' serv' amico, 

si raccomand' a tte com' a segnore;

e sì tti prego per lo dio d'Amore,

il qual è stat' un tu' signor antico,

che mmi perdoni s'i' spiacer ti dico,

ché mmi dà sicurtà 'l tu' gentil cuore: 

quel ch'i' vol dire è di questo tenore, 

ch'al tu' sonetto in parte contradico. 

Ch'al meo parer nell'una muta dice

che non intendi su' sottil parlare,

di que' che vide la tua Beatrice;

e puoi hai detto a le tue donne care

che be llo 'ntendi: e dunque contradice

a ssé medesmo questo tu' trovare.




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X



Dante Alleghier, s'i' so' buon begolardo,

tu me ne tien' ben la lancia a le reni;

s'i' desno con altrui, e tu vi ceni;

s'io mordo 'l grasso. e tu vi sughi el lardo;

s'io cimo 'l panno, e tu vi freghi el cardo;

s'io so' discorso, e tu poco t'afreni;

s'io gentileggio, e tu misèr t'aveni;

s'io so' fatto romano, e tu lombardo.

Si che, laudato Idio, rimproverare 

poco può l'uno a l'altro di noi due: 

sventura o poco senno ce'l fa fare. 

E se di tal materia vo' dir piùe, 

Dante, risponde, ch'i' t'avrò a stancare, 

ch'i' son lo pugnerone, e tu se' 'l bue









 

 

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